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Battaglie tra economisti? Un déjà vu

di Robert Skidelsky

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11 giugno 2009

La storia è ricca d'esempi di celebri battaglie intellettuali. Nelle scienze naturali queste disfide quasi sempre sono sfociate in vittorie definitive, con la buona scienza che ha scacciato la cattiva. È molto difficile oggi trovare un astronomo tolemaico o un sostenitore della teoria del flogisto sulla combustione. Nelle scienze sociali la situazione è diversa. Le battaglie furibonde non mancano, ma vittorie definitive non ce ne sono mai. Anzi, un tratto tipico delle scienze sociali sono le battaglie interminabili, con sconfitte temporanee a seguito delle quali le forze sconfitte serrano le fila e lanciano un nuovo attacco.

Che l'economia non sia una scienza naturale è evidente dagli scontri inconcludenti che ne hanno punteggiato la storia. Cento anni fa regnava incontrastata la teoria classica, quella che "dimostrava" che il libero mercato era in grado di autocorreggersi fino alla piena occupazione. O si aveva una situazione costante di piena occupazione oppure, in caso di shock esterno, si ritornava in tempi rapidi alla piena occupazione. L'unica cosa capace di turbare il funzionamento della mano invisibile del mercato era la mano visibile dell'interferenza dello Stato.
Poi arrivarono la Grande Depressione del 1929-1932 e John Maynard Keynes. Keynes "dimostrò" che i mercati non avevano alcuna propensione automatica alla piena occupazione. Questa incapacità della mano invisibile giustificava le politiche pubbliche per il mantenimento della piena occupazione.

Per trent'anni o giù di lì, il keynesianesimo l'ha fatta da padrone nel mondo della scienza economica (e della politica economica). Harvard regnava e Chicago era sparita dalla circolazione. Ma Chicago si stava solo leccando le ferite e negli anni 60 partì al contrattacco. La nuova offensiva era capitanata da Milton Friedman con una costellazione di brillanti e giovani discepoli al seguito. Quello che fecero fu riproporre la teoria classica. Le loro "prove" della capacità dei mercati di autocorreggersi istantaneamente o quasi fino alla piena occupazione erano tanto più straordinarie perché adesso venivano espresse ricorrendo a modelli matematici. La teoria delle aspettative adattative, la teoria delle aspettative razionali, la teoria dei cicli economici reali, la teoria del mercato efficiente: tutte uscite dalla catena di montaggio della scuola di Chicago, con premi Nobel per i loro ideatori.
Nessun politico capiva gli aspetti matematici delle teorie, ma il messaggio passò senza difficoltà: il mercato era buono, lo Stato cattivo. I keynesiani erano in rotta. Dopo Ronald Reagan e Margaret Thatcher, le politiche keynesiane di piena occupazione furono abbandonate e i mercati deregolamentati. Poi è arrivata la quasi-Grande Depressione dei nostri giorni e la battaglia è ricominciata.

I frequentatori della blogosfera sapranno che il principale oggetto del contendere in questo momento sono gli effetti dei piani di rilancio. I lettori del Financial Times avranno potuto farsi una vaga idea dell'intensità della battaglia nell'editoriale del 30 maggio a firma Niall Ferguson, intitolato «A history lesson for economists in thrall to Keynes» («Una lezione di storia per gli economisti asserviti a Keynes»). Ferguson e Paul Krugman, economista ed editorialista del New York Times, avevano già incrociato le spade in un convegno pubblico a New York, il 30 aprile. Lo storico sosteneva che l'incremento del deficit di bilancio avrebbe spinto al rialzo i tassi d'interesse sul lungo termine, riducendo pertanto a zero l'effetto di stimolo: la spesa pubblica avrebbe semplicemente "estromesso" la spesa privata. Infuriato, Krugman ha replicato sul suo blog che Keynes aveva dimostrato che ciò poteva accadere solo in una situazione di piena occupazione: in presenza di risorse inutilizzate, il deficit di bilancio farebbe sì crescere i tassi d'interesse, ma al contempo farebbe espandere l'economia. Le ignoranti osservazioni del professor Ferguson non facevano altro che confermare che «viviamo in un'epoca buia per la macroeconomia, dove conoscenze acquisite a caro prezzo sono state semplicemente dimenticate».

Ma questo non è un dibattito tra economisti e storici. È una battaglia all'interno del mondo degli economisti, fra neoclassici e neokeynesiani. La cosa affascinante è che si tratta di una riedizione quasi esatta del dibattito tra Keynes e il Tesoro britannico nel 1929-1930. L'opinione del Tesoro allora era che la spesa pubblica, finanziata con i titoli di Stato, avrebbe ridotto in misura equivalente la spesa privata. Keynes replicava che se questo fosse stato vero, si sarebbe applicato a qualsiasi nuovo atto di spesa privata. «In breve, la convinzione fatalistica che non possa esserci più occupazione di quella che già c'è è assolutamente infondata».

In seguito il Tesoro ripiegò su una posizione più difendibile. Il pericolo di un incremento della spesa pubblica - passò a sostenere - non risiedeva nell'estromissione "fisica" di risorse, ma nell'estromissione "psicologica". Se si fosse cominciato a dubitare della solvibilità dello Stato - un timore che Krugman ha ammesso - l'effetto avrebbe potuto essere una fuga di capitali, che avrebbe reso più oneroso per lo Stato prendere soldi in prestito.
  CONTINUA ...»

11 giugno 2009
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